Ma la privacy è davvero morta?

Ma la privacy è morta? Ecco, questo si domandano da 10 anni gli americani. Blogger, professori, esperti si interrogano sul possibile tramonto della riservatezza dei nostri dati personali. E mai nessuno che offre motivi validi per ritenere che sia davvero finita l’era in cui dover lasciare a una normativa specifica, l’espansione sociale della nostra vita.

A terrorizzare maggiormente gli osservatori dei primi anni 2000, erano le tecnologie. Questo rincorrersi di strumenti di geolocalizzazione, di riconoscimento facciale e di altri dati biometrici inquietava non poco, tanto quanto il diffondersi di telecamere di sicurezza e di monitoraggio satellitare. Il pericolo era allora identificato in qualcosa di fisico, di potenzialmente dannosissimo oppure utilissimo a seconda dei punti di vista.

Si diceva: il dato una volta raccolto in un database perde la sua corporeità specifica e diventa sistema. Qualcosa di esponenzialmente più efficace di un semplice tratto distintivo, una collazione di elementi pronti a diventare un puzzle perfetto. Rimanendo ancora per un attimo nel sistema americano, il pericolo era proprio lo Stato che catturando, conservando e trattando i dati dei cittadini poteva ad esempio predire chi era nelle condizioni di commettere un crimine aprendo così la strada a uno Stato di polizia, in cui vige il regime del sospetto.

Dettagli trascurabili che prima non avevano alcun rilievo costituzionale, diventarono immediatamente contraddittori con i principi di libertà inviolabili. Un affastellarsi di dati raccolti con il pagamento delle tasse, piuttosto che con il rilascio delle patenti hanno assunto da subito i connotati specifici di una torta lievitata in fretta e male, scappata dal forno e finita in mani anonime, di privati terzi rispetto allo Stato, e quindi totalmente fuori controllo.

Insomma ci sono ben quattro salti logici da compiere per capire cosa è successo e dove ci troviamo adesso in questo settore. Il primo salto logico da compiere va dalla raccolta del singolo dato alla formazione di un database. Non sfuggirà la differenza sostanziale tra le due cose in termini non puramente quantitativi ma qualitativi e di ricadute. Il secondo salto logico si ha con la profilazione attraverso i servizi e il data mining, ossia un automatismo per riesumare dati prima non considerati che assurgono a sistema e utilizzarli per compiere scelte mirate. Il terzo è nell‘uso per pubblica utilità dei dati da parte dello Stato. Ci sono infinite applicazioni ma quella per fini di giustizia appare la sola credibile. Ed eccoci finalmente arrivati al quarto salto logico che consta nel guardarsi le spalle dalla profilazione operata dai privati terzi. E su questo dovremmo soffermarci un pochino.

Facciamo un esempio a caso: i big data di Google. Il colosso di Mountain View sa tutto di tutti. Non solo di chi usa i suoi servizi on line, ma anche di chi usa i dispositivi Android ed Apple a cui paga profumatamente un miliardo di dollari pur di rimanere il motore di ricerca di default. Una dominanza in lungo e in largo, sulla ricerca on line e sui servizi verticali, recentemente operata anche attraverso i prodotti e con le piattaforme. Un controllo totale dei dati con cui si esprime la nostra esistenza che si vivifica ogni giorno con miliardi di email indicizzate e ritenute con documenti, allegati e foto.

Google conosce il nostro volto taggato in miliardi di foto che cediamo e che può essere usato per sbloccare il cellulare. Google ha piena visibilità di spostamenti, calendari, viaggi, pagamenti elettronici, gusti, orientamenti. La quantità e la qualità dei dati è esplosa negli ultimi anni al punto che nessuno sa veramente cosa Google stia effettivamente raccogliendo, usando, o vendendo. Né si conoscono le modalità di trattamento, i tempi. Si sa solo, perché ce lo dicono le Autorità della privacy europee, che Google sta abusando di questi dati e della sua dominanza danneggiando il mercato e la concorrenza e ponendo interrogativi sulla consistenza della democrazia su Internet.

Google non è l’ISTAT, insomma. Usa quei dati per scopi precisi, e da quanto risulta al Commissario europeo Almunia, ha sviluppato effetti anticompetitivi per rafforzare ancora di più la sua dominanza e farla diventare rapidamente abuso e monopolio. Per questo credo che la privacy non sia morta. Va solo diversamente assistita con un pacchetto di norme che chiariscano alcuni punti e statuiscano alcuni principi. Trasparenza e chiarezza delle condizioni. Opportunità per l’utente di sapere in ogni momento quali dati vengono raccolti, come vengono trattati e chiedere di poterli modificare o distruggere. Si tratta di diritto all’oblio. Su questo c’è ancora molto da fare per farlo diventare un diritto effettivamente esercitabile dal cittadino. Qualcosa in tal senso è arrivata con una riforma della data privacy proposta dalla Reading a Bruxelles ma non sappiamo cosa uscirà dopo l’assalto delle lobby. Seguiremo con attenzione i prossimi sviluppi.